Storia di due zitelle e una vita a metà
di Francesco Altavista
Satriano di Lucania –
Straziante, triste e violento. Si potrebbe anche ridurre con questi tre
aggettivi lo spettacolo “ Sugo finto” che per quattro giorni ha emozionato
il pubblico della rassegna “ Le valli del teatro”: a partire da giovedì otto a Santarcangelo, il
nove a Moliterno, il dieci a Marsicovetere e in fine al teatro Anzani di
Satriano di Lucania, domenica scorsa. Si
potrebbe, il condizionale è d’obbligo quando la parola sintesi viene affiancata
ad un’opera di uno degli autori più interessanti del panorama italiano, Gianni
Clementi. È la prima cosa che si
apprezza quando a fine spettacolo si hanno ancora gli occhi umidi e il cuore a
pezzi, la testa in subbuglio per le bastonate che l’autore cinquantaseienne non
risparmia al pubblico. La sua è una scrittura realmente stimolante che non solo
naviga nella realtà, ma di quest’ultima ne esamina le sfumature, i rapporti tra
le cose, l’attimo di quanto per esempio una carezza diventa brivido d’amore oppure l’istante
esatto, quando cambia colore un bacio dato sulla bocca innamorata.” Sugo Finto”
è l’ennesimo esempio del suo genio senza confini. Mettere insieme due anime a
metà che coincidono per sconfitta, alla fine non ne fanno una sola completa.
Come se le due anime impoverite di vita si confondessero una con l’altra, senza
coprire mai una metà vuota, una mancanza sentita, un’angoscia imponderabile e
indefinita che si muove nel nulla. Il pubblico in un teatro” Anzani “ quasi pieno è disorientato per quasi tutta la prima parte della piecè dove
ride, si allieta, si perde nella voluttà della contraddizione di due zitelle in
costretta convivenza. Eppure nella splendida regia di Ennio Coltorti, lo
spettacolo comincia sulle parole corsare
di sentimenti di Maria Defilippi, di quei programmi alla televisione che tanto
piacciono ai poveri di spirito, come una delle protagoniste della pièce
Addolorata. Quest’ultima con il mezzo televisivo costruisce una sua realtà parallela,
arida di sentimenti e di passione, si nutre della falsità televisiva, di
sentimenti di cartone; preferisce che questi si brucino e rimanga almeno la
cenere, al nulla che avvolge la sua vita. Ad interpretarla una superlativa ed energica Paola Tiziana Cruciani. Vicino a
lei in una scenografia formata da mobili appoggiati alle quinte nere c’è
l’altra sorella Rosaria interpretata da una sorprendente Alessandra Costanzo: è posata
, attenta alle spese in modo eccessivo, fulcro e culmine della piccola famiglia,
dominatrice fatua della sorella. Come un sugo detto finto perchè senza carne,
senza sostanza, la vita scorre così senza emozioni, con piccoli litigi in
romanesco che tanto divertono, con elementi di attualità come i cinesi, la
crisi, i matrimoni di convenienza eppure
si incomincia a scorgere la tristezza in dei dialoghi curatissimi che nella seconda parte esplodono con tutta
la loro violenza. Lo spettacolo prende un po’ in giro il pubblico, Clementi va
a mettere la sua penna intinta per
strada sul foglio sporco dei sogni infranti. Rosaria è colpita da un male che la costringe
sulla sedia a rotelle, la pièce si dimostra poco parsimoniosa di destino e con
l’alibi dell’attualità, va ad intaccare
uno dei momenti che tra le sorelle sembrava il più felice, dopo un
divertente criticare di un matrimonio di un cugino con una giovane badante
Moldava, finito poi male. Le due sorelle
allora si dimostrano al pubblico per quel che erano sin dall’inizio, un piccolo
mondo in una realtà molto grande posti in una situazione di incomunicabilità.
Addolorata a questo punto da vera e propria carnefice forse di se stessa
dilapida il patrimonio che la sorella aveva raccolto con la sua avarizia; nel
frattempo Rosaria non parla più, in dei terribili momenti di straziante resa alla vita sembra aspettare la morte, non
mangiando. Il pubblico quasi in lacrime
aspetta il lieto fine, ma Gianni Clementi e la sua penna cinica consegna un
mezzo finale , di una mezza storia vissuta in due. Un piccolo barlume di amore
sembra mostrarsi in Addolorata che chiede scusa, ma è solo un’altra costruzione
metaforica di Clementi, non è amore perché Addolorata si abbandona a parole
mendaci a fin di bene, ma il fatto che l’universo di vita di entrambe si
riconosce nell’altra diventa l’unica
vita possibile anche se non completa. Non amano, non vengono amate, disprezzano
il mondo degli altri perché questi ha disprezzato loro, la terribile pianta
dell’odio sembra nascere intorno alla bolla che le rinchiude in una realtà
propria ma non reale. Sembra di assistere alla inconfutabile e immutabile
condizione pirandelliana della maschera, una condizione che non si può
cambiare. Per vivere forse basta avere l’illusione che possa mutare,
l’illusione che si possa guarire dalla terribile malattia dell’indifferenza e della superficialità, l’illusione che la
fine non esista. In quei gesti di carino
affetto che Addolorata solo nel finale dedica a Rosaria, si riconoscono momenti
che stringono il cuore ma che spezzano
una frase a metà, una frase in cui si preferisce evitare un finale che già si
conosce.