venerdì 20 aprile 2012

Storia di due zitelle e una vita a metà

da " Il quotidiano della Basilicata"


Storia di due zitelle e una vita a metà 


di Francesco Altavista



Satriano di Lucania – Straziante, triste  e violento.  Si potrebbe anche ridurre con questi tre aggettivi  lo spettacolo  “ Sugo finto” che per quattro giorni ha emozionato il pubblico della rassegna “ Le valli del teatro”:  a partire da giovedì otto a Santarcangelo, il nove a Moliterno, il dieci a Marsicovetere e in fine al teatro Anzani di Satriano di Lucania, domenica scorsa.  Si potrebbe, il condizionale è d’obbligo quando la parola sintesi viene affiancata ad un’opera di uno degli autori più interessanti del panorama italiano, Gianni Clementi.  È la prima cosa che si apprezza quando a fine spettacolo si hanno ancora gli occhi umidi e il cuore a pezzi, la testa in subbuglio per le bastonate che l’autore cinquantaseienne non risparmia al pubblico. La sua è una scrittura realmente stimolante che non solo naviga nella realtà, ma di quest’ultima ne esamina le sfumature, i rapporti tra le cose, l’attimo di quanto per esempio una carezza  diventa brivido d’amore oppure l’istante esatto, quando cambia colore un bacio dato sulla bocca innamorata.” Sugo Finto” è l’ennesimo esempio del suo genio senza confini. Mettere insieme due anime a metà che coincidono per sconfitta, alla fine non ne fanno una sola completa. Come se le due anime impoverite di vita si confondessero una con l’altra, senza coprire mai una metà vuota, una mancanza sentita, un’angoscia imponderabile e indefinita che si muove nel nulla. Il pubblico in un teatro” Anzani “  quasi pieno  è disorientato per  quasi tutta la prima parte della piecè dove ride, si allieta, si perde nella voluttà della contraddizione di due zitelle in costretta convivenza. Eppure nella splendida regia di Ennio Coltorti, lo spettacolo comincia sulle parole  corsare di sentimenti di Maria Defilippi, di quei programmi alla televisione che tanto piacciono ai poveri di spirito, come una delle protagoniste della pièce Addolorata. Quest’ultima con il mezzo televisivo costruisce una sua realtà parallela, arida di sentimenti e di passione, si nutre della falsità televisiva, di sentimenti di cartone; preferisce che questi si brucino e rimanga almeno la cenere, al nulla che avvolge la sua vita. Ad interpretarla una superlativa  ed energica Paola Tiziana Cruciani. Vicino a lei in una scenografia formata da mobili appoggiati alle quinte nere c’è l’altra sorella Rosaria interpretata da una sorprendente Alessandra Costanzo: è posata , attenta alle spese in modo eccessivo, fulcro e culmine della piccola famiglia, dominatrice fatua  della sorella.  Come un sugo detto finto perchè senza carne, senza sostanza, la vita scorre così senza emozioni, con piccoli litigi in romanesco che tanto divertono, con elementi di attualità come i cinesi, la crisi, i matrimoni di convenienza  eppure si incomincia a scorgere la tristezza in dei dialoghi curatissimi  che nella seconda parte esplodono con tutta la loro violenza. Lo spettacolo prende un po’ in giro il pubblico, Clementi va a mettere la sua penna  intinta per strada sul foglio sporco dei sogni infranti.  Rosaria è colpita da un male che la costringe sulla sedia a rotelle, la pièce si dimostra poco parsimoniosa di destino e con l’alibi dell’attualità, va ad intaccare  uno dei momenti che tra le sorelle sembrava il più felice, dopo un divertente criticare di un matrimonio di un cugino con una giovane badante Moldava, finito poi male.  Le due sorelle allora si dimostrano al pubblico per quel che erano sin dall’inizio, un piccolo mondo in una realtà molto grande posti in una situazione di incomunicabilità. Addolorata a questo punto da vera e propria carnefice forse di se stessa dilapida il patrimonio che la sorella aveva raccolto con la sua avarizia; nel frattempo Rosaria non parla più, in dei terribili momenti di straziante  resa alla vita  sembra aspettare la morte, non mangiando.  Il pubblico quasi in lacrime aspetta il lieto fine, ma Gianni Clementi e la sua penna cinica consegna un mezzo finale , di una mezza storia vissuta in due. Un piccolo barlume di amore sembra mostrarsi in Addolorata che chiede scusa, ma è solo un’altra costruzione metaforica di Clementi, non è amore perché Addolorata si abbandona a parole mendaci a fin di bene, ma il fatto che l’universo di vita di entrambe si riconosce nell’altra  diventa l’unica vita possibile anche se non completa. Non amano, non vengono amate, disprezzano il mondo degli altri perché questi ha disprezzato loro, la terribile pianta dell’odio sembra nascere intorno alla bolla che le rinchiude in una realtà propria ma non reale. Sembra di assistere alla inconfutabile e immutabile condizione pirandelliana della maschera, una condizione che non si può cambiare. Per vivere forse basta avere l’illusione che possa mutare, l’illusione che si possa guarire dalla terribile malattia dell’indifferenza  e della superficialità, l’illusione che la fine non esista.  In quei gesti di carino affetto che Addolorata solo nel finale dedica a Rosaria, si riconoscono momenti  che stringono il cuore ma che spezzano una frase a metà, una frase in cui si preferisce evitare un finale che già si conosce.

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