Grisù di Clementi, una commedia " gustosa"
di Francesco Altavista
Satriano di Lucania
– Alla fine dello spettacolo si va tutti di corsa a degustare prodotti tipici
nel Castello Guarini di Satriano di Lucania, con gli attori che fino a pochi
minuti prima avevano saziato tutti a suon di risate per circa due ore. E’ la
nuova idea degli organizzatori della rassegna “ Le valli del teatro”, Domenico
De Rosa e Rocco Positino: unire il teatro alla promozione dei prodotti tipici,
uno strano ma interessantissimo intreccio tra l’arte e i sapori del
Melandro. E quindi Paolo Triestino, Nicola Pistoia, Franca
Abategiovanni, Sandra Caruso e Diego Guenci
appena scesi dal palcoscenico del teatro “ Anzani” di Satriano di
Lucania e smessi i vestiti di scena della splendida commedia del genio Gianni Clementi ”, Grisù, Giuseppe e Maria”
, domenica scorsa si sono ritrovati
nella “Rocca Duca Poggiardo” insieme a tutto il pubblico che poco prima si era
trascinato in un lunghissimo applauso, a
gustare latticini e salumi tipici seguiti dall'immancabile buon bicchiere di
vino che da queste parti si può accompagnare anche solo ad una chiacchiera, in
questo caso, con gli attori. Certo la stanza del buffet probabilmente rinvigorita da qualche “intruso” ha appassionato più persone ma il teatro
“Anzani” al primo spettacolo della rassegna 2013 “ Le valli del teatro” fa registrare quasi il tutto esaurito, segno
di una amore per la coppia Triestino – Pistoia
ma anche un gesto d’affetto profondo verso gli organizzatori della
rassegna, De Rosa e Positino. Gianni
Clementi per portare il pubblico in una intricatissima storia, tipicamente
napoletana usa l’espediente del
flashback affidato a Donna Rosa
interpretata da una bravissima Franca Abategiovanni che appare
in platea davanti ad un
altarino corredato da un’immagine della
“ madonna”. Tutta la pièce, sotto
un’energica, veloce e moderna regia di
Nicola Pistoia, è un omaggio al teatro
napoletano, non solo nella lingua che con straordinaria maestria viene fatta
fluttuare nella storia da attori non napoletani, ma anche nei modi, nelle strutture, nelle sceneggiate e perfino nell'intreccio che ricorda molto
nel sapore le speculazioni “scaperttiane”.
Anche nelle caratterizzazioni
dei personaggi Clementi si rifà alla commedia napoletana di Scarpetta, specie nei personaggi femminili dove è evidente qualche vena del maschilismo
che caratterizzava quelle opere partenopee: le donne non sono protagoniste che superano gli argini
imposti ma vittime che stanno al loro posto. E’ una pièce comunque che , come al solito quando si assiste alla magia
della penna di Gianni Clementi, non bisogna leggere superficialmente
affidandosi solo alle continue maschere
esilaranti corredate da battute, ma scavare nelle personalità dei
personaggi e nella straordinaria lirica
dei dialoghi. E’ un esercizio che il pubblico deve fare per dedicarsi corpo e
anima ad una scrittura entusiasmante oltre che a capacità interpretative uniche
da parte di tutti gli attori in scena.
Paolo Triestino è il perno di tutta la storia: è il prete, Don Ciro
intorno al quale si legano tutte le storie dei personaggi, tutte dalla doppia faccia. Una con il sorriso
e la speranza propria degli anni 50 periodo in cui è ambientata la pièce e
l’altra terribile, oscura, ombrosa e più
nascosta che evidenzia le storture del dopoguerra e fornisce alcune delle parole che
tratteggiano la modernità. Così questo strano prete che è simbolo della
pièce, da una parte appassiona il
pubblico e ricorda un po’ l’eroe che
vuole portare Pozzuoli verso l’emancipazione, l’amico del popolo, pronto a
tendere la mano, pronto a dare insegnamenti ma a non essere severissimo sui
dogmi della chiesa ma comprensivo e disponibile nel leggere le lettere ai suoi
fedeli analfabeti: dall’altra parte il
prelato diventa anche il custode aggressivo
di un tempo ormai frantumato come i valori della famiglia e le vite dei
miserabili,questi ultimi indirizzati a votare il consigliere comunale che fa i
favori.
E’ Don Ciro che decide di costruire una truffa per salvare due donne
sole dallo scandalo. Sullo sfondo la tragedia di “ Marcinelle” , dove muore a
causa del gas “ Grisou” o “ “ Grisù”, Antonio
il marito fedifrago di Donna Rosa che come il prelato vuole mantenere
almeno la parvenza di donna onesta e timorata di Dio ma il suo essere anche
moglie comprensiva fino all’assurdo ( concede senza batter ciglio la relazione amorosa tra il marito e la
sorella) la porta ad una sconfitta su tutti i fronti. Insieme alla tragedia
della miniera belga c’è la storia di
“Peppiniello” il figlio mezzo analfabeta ma
talentuoso nel gioco del calcio
di donna Rosa, simbolo del sud che alla fine abbandonerà l’Internazionale per
tornare alla sua Napoli a vendere gelati per pochi spiccioli. Pozzuoli diventa
l’immagine di un’Italia deturpata e violentata dalla guerra appena passata, un
momento in cui i valori alzati come la polvere
del fuoco delle bombe deve ancora assestarsi. In questa confusione da sconfitto
si muove , marginalmente, anche il sacrestano Vincenzo che non riesce a cantare
“L’alleluia” ; zoppo e con una mano sola, è
l’espediente comico della pièce, interpretato da Nicola Pistoia. Donna
Filumena, sorella di Donna Rosa interpretata dall’unica napoletana della compagnia
Sandra Caruso è la vittima di questo caos, vittima della sua passione
ormonale, lei è lo scandalo che si vuole
evitare, aspetta un figlio dal marito di sua sorella o almeno così si crede
fino alla fine. Vittima del sotterfugio di Don Ciro è Don Eduardo interpretato
da Diego Guenci anche lui marito
traditore ammaliato dalle grazie di Donna Filumena. Per evitare
l’immoralità i due nascituri vengono
attribuiti a Donna Rosa e sarà lei a sopportare il peso dello scandalo perché
come finiscono quasi sempre le storie d’amore e di tradimento napoletane, il
figlio di donna Filumena è “nero” e sarà
chiamato proprio Grisù. Finisce bene la storia: Donna Rosa perdona in qualche
modo la sorella, Don Ciro aspetta il suo nuovo sacrestano perchè Vincenzo è
diventato prete, Don Eduardo padrino di Grisù baderà economicamente al suo
sostentamento e Donna Filumena ha mantenuto la sua immagine di donna casta e
pura. Un finale che di lieto ha solo la parvenza, dentro brucia di parole amare
e consapevolezze nascoste ma in fondo brilla una luce di speranza perché non si
parla dei tempi moderni ma degli anni 50 ,quando era ancora permesso che dal matrimonio tra
delusioni e sogni nascesse la
speranza.
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